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Un nuovo racconto di Gianni Turino sul calcio di una volta

C'era una volta il fulbal

Un nuovo racconto di Gianni Turino sul calcio di una volta

Si giocava dappertutto, sull’argine del Po, nelle piazze , per le strade, le porte erano due cappotti, o due cartelle, o qualche mattone…e poi negli oratori. Erano vivai inesauribili ed il calcio locale in essi si alimentava. Ora da lustri nelle squadre locali come il Casale , Casalesi e Monferrini, non se ne vedono più…E gli oneri finanziari sono insostenibili. Bisogna tornare alla base, cercare di valorizzare i giovani, di dare una mano alle scuole di calcio rette da appassionati che amano il fulbal ma soprattutto i giovani…Solo nel vivaio locale c’è la possibilità di recuperare spazio a realtà come quella nerostellata.
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C‘era una voltra il fulbal.
Il fulbal era il “calcio” inteso come gioco in generale; ed era il pallone; fisicamente il pallone.
Il fulbal come gioco aveva una popolarità universale. Ad alto livello, a livello delle squadre, coinvolgeva tutti, cioè tutta la società : era una miscela di campanilismo e di patriottismo (che del campanilismo è la proiezione più elevata).
Il fulbal come pallone, era invece un problema.
Nel senso che “la magica sfera di cuoio” come l’aveva chiamata Nino Salvaneschi l’inventore del “campionissimo” a Girardengo, era, nella generalità degli appassionati, un miraggio; o perlomeno un sogno difficilmente raggiungibile.
Si giocava dappertutto; sulle piazze, per le vie, nei prati appena sfalciati,, nei cortili, ovunque c’era uno spazio, seppure piccolo; e soprattutto negli oratori. Strumento della contesa, spesso era un qualcosa che assomigliava ad una sfera ma che quasi sempre non saltava trattandosi di stracci legati o, quando andava bene di un pallone sgonfiato. Ma si giocava , giocavano tutti.
Da mezzogiorno alle due, prima di cena .Le squadre venivano composte con il metodo del bim-bum-bam e li tre…Cioè i due “capitani” si giocavano i giocatori ,che erano accoppiati, a pari e dispari; quando arrivava qualcuno si aspettava che ci fosse la coppia, poi entravano “uno da una parte, uno dall’altra…”: Non c’erano problemi di età.
Negli oratori, c’era, come pallone , il flubal di cuoio; il Parroco lo elargiva con molta prudenza e mille raccomandazioni.
“Mi raccomando-esortava- nella porta dietro alla quale c’è il muro, mettete un portiere bravo se no il pallone (a forza di battere contro il muro, se il portiere era una schiappa –n.d.r.) si rovina…”.
Gonfiare il fulbal era un’impresa. Il cuoio esterno aveva una fessura dentro alla quale si infilava la camera d’aria. Normalmente si era sprovvisti di pompa e, se questa c’era, mancava l’indispensabile valvola; allora si gonfiava a fiato; la camera d’aria, infilata nella struttura di cuoio, passava di bocca in bocca; chi soffiava dilatava le guance come otri e pareva dovessero scoppiare da un momento all’altro; quando era allo stremo di ossigeno, piegava il tubetto, per non far fuoriuscire l’aria, e lo passava al vicino…e così via. Quando la camera d’aria era gonfia e faceva tutt’uno con il cuoio, si legava, piegandolo, il tubetto e quindi si “cuciva” , si “scursinava”, l’apertura con una stringa, di cuoio – la guiggia- o se non c’era, di spago.
Per farlo ci si serviva di uno strumento di acciaio lungo una spanna e con la punta leggermente ricurva, nell’asola della quale si infilava lo spago con cui si stringava , passandolo da foro in foro (proprio come le stringhe nelle scarpe):
Poi si giocava; chi aveva la sventura di colpire il pallone sulla “scursinatura”, si procurava lo sfregio permanente (ed era per questo che molti giocatori- come il grande Caligaris- giocavano con un fazzoletto legato sulla fronte).
La porta era spesso delimitata da due berretti o da due sassi; la traversa era calcolata sulla statura del portiere.
In pratica, come gioco popolare, esisteva solo il fulbal; con una sola palla si poteva giocare in trenta o quaranta. Non erano nemmeno immaginabili, a livello popolare, sport come il tennis o palla al cesto (oggi basket) dove ci volevano strutture, campi, attrezzature, quattrini; erano sport riservati a quelli con “ il portafoglio a bocca di coccodrillo”(ed è per questo che l’Italia, in questi sport, fu per lungo tempo una cenerentola a livello internazionale);a nuotare si imparava nelle bulle, nel Po, e nelle rogge; la piscina la si vedeva qualche volta al cine.
La divisa per i calciatori in erba, era un sogno; ci si riconosceva dal fisico e non dalle maglie.
Nelle squadre delle società sportive ufficiali, c’era la maglia ; ed anche le scarpe bullonate, che però non erano ad personam, ma passavano da uno all’altro. Indispensabile avere disponibile, prima di usare le scarpe, un martello e un piede di ferro per ribattere i chiodi che altrimenti si sarebbero incarnati, cioè piantati nel piede.
Il gioco del calcio aveva questa grande naturale scuola.
Gli oratori organizzavano tornei a sette (i campi erano piccoli ma le porte erano rigorosamente regolari; era impossibile quindi tirare il calcio d’angolo per cui si attuava spesso la regola: tre corner, un rigore) dai quali sprizzavano scintille e talenti che avrebbero poi preso il volo sui campi da undici e nelle grandi squadre.
Poi gli oratori sparirono; sparirono per una serie di fattori che sarebbe lungo analizzare; ci fu il boom economico e lo sport divenne, per i bambini, una margherita da sfogliare; le mamme preferivano basket e piscina, perché lì si gioca al caldo e non ci si sporca.
E il vecchio fulbal perse l’ascendente che aveva avuto da un secolo nella società.
Non ci si faccia trarre in inganno dalla grande frode televisiva che propina calcio in tutte le salse e in tutte le ore del giorno; e dai miliardi che si sentono circolare.
Il calcio come fenomeno popolare è scaduto ai minimi termini e basta dare un’ occhiata al pubblico dei grandi stadi, ma soprattutto dei campetti di periferia e dei paesi, un tempo -la domenica - polo d’attrazione di tutta la comunità, per rendersene conto.
Alla mancanza di base naturale, supplisce la grande passione di società sportive, e cioè degli uomini che le reggono, che per il calcio giovanile e dilettantistico rinunciano a quasi tutto, con onerosissimi sacrifici personali e materiali, per trasmetterne ai giovanissimi l’amore.
Certo i tempi non sono più quelli eroici del bim-bum-bam o dei tre corner un rigore, però l’insegnamento che viene elargito supplisce alla mancanza della scuola della strada e degli oratori.
Queste scuoele sono, per chi ama lo sport, motivo di orgoglio.
Soprattutto perché il gioco del calcio, il fulbal, è intrinsecamente scuola di vita; una scuola che elabora, sviluppa ed a volte scatena emozioni primordiali che sono intrinseche all’esistenza dell’uomo.
Che poi qualche volta queste passioni degenerino, non vuol dire nulla.
Succede che anche una mamma si sbarazzi del figlio; ma questo non significa che il rapporto mamma –figlio non sia ombelicamente ed assolutamente d’amore.
La sopravivenza del calcio, come grande e corale espressione della società, non sta nei miliardi che circolano per i cosidetti big e compagnia briscola, ma in queste piccole società rette dalla passione e dai sacrifici personali di chi le guida.
…E nei tornei; in queste manifestazioni che rastrellano la base e gli imprimono il pathos e l’ebbrezza della partecipazione e del confronto con la consapevolezza di essere e di rappresentare comunità. Perché niente come nel calcio si è tutti per uno ed uno per tutti; e soprattutto perché inculcano nella mente e nel cuore dei giovanissimi, oltre alla felicità di esserne protagonista, la consapevolezza che la partita della vita può essere felicemente condotta anche senza provare l’emozione dirompente del gol; perché, non raramente, le partite più belle per il “sommo” gianni Brera fu Carlo sono le perfette- finiscono zero a zero…
… E che la vita è una partita da giocare, e deve essere giocata perché è così bella , anche se non si è, e m non si diventerà, Dante o Giulio Cesare o Paperon de Paperoni…(e nemmeno Mazzola –Valentino- o Maradona)…
…Perché he nella vita, il vero gol, è la vita.

Gianni Turino

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